sabato 3 dicembre 2016

Io e la mia Coinquilina

Salve a tutti. Sono Lorenza, ho quasi 18 anni (a Ottobre) e ho l’epilessia. Ho scoperto di avere l’epilessia a Ottobre/Novembre 2014, quindi sono ormai quasi due anni che ci convivo. Frequento il liceo classico e in quell’anno avevo cambiato scuola per proseguire i miei studi in un liceo più grande (poiché io vivo e frequentavo il liceo in un paese più piccolo).

Quel Giorno avevo fatto un compito di greco in mattinata. Nel pomeriggio, come ero solita da 8 anni, andai a fare allenamento di pallavolo (anche in questo caso avevo cambiato Società). Mio padre restò (per la prima volta in 8 anni) a vedere il mio allenamento. Finii l’allenamento e, appena entrati in macchina, mio padre cominciò a dirmi che i miei anni ad allenarmi non mi avevano portato a nulla,che i miei ex allenatori erano incapaci, e altre mille cose brutte (e peggiori) che non sto qui a elencare. Essendo una persona sensibile e stanca (sia fisicamente che psicologicamente), mi fu impossibile trattenere le lacrime dopo le infinite mortificazioni. Una volta tornata a casa, dopo una lunga,calda e rilassante doccia, andai a dormire. 

Poi non so più cosa sia successo: mi svegliai due ore dopo in ambulanza. Non capii nulla. Avevo mia madre vicino e io a stento riuscivo a parlare. Essendo una ragazza abbastanza sveglia, subito aprii gli occhi e vidi tutti quegli “aggeggi” attorno a me. Dopo aver pensato di stare sognando ricordo di aver chiesto cosa fosse successo. Mia madre mi rispose che avevo avuto una crisi epilettica. Lì per lì io rimasi convinta che era solo un sogno, così mi riaddormentai. 

Mi risvegliai al tatto delle lenzuola fredde del lettino di pediatria nel quale le mie lunghe gambe non riuscirono ad entrare. Mi resi conto dopo di quello che era successo. Mi guardai attorno: avevo un ago nel braccio collegato a un altro “aggeggio” che sembrava misurasse la pressione, non saprei. Era buio e affianco a me c’era una bambina (avrà avuto 9 anni o quasi) che dormiva e c’era anche la madre. Continuai a osservare quella stanza per altri 10 minuti, poi mi riaddormentai. Mi svegliai la mattina dopo all’alba e tutti dormivano ancora. Avrei voluto andarmene, scappare. Non era quello il posto in cui dovevo essere. Vennero a chiamarci le infermiere e cominciammo il giro di esami. Il tracciato risultò molto alterato. Non avevo mai visto un tracciato. Ricordo di averlo paragonato a uno di quei fogli dove si registra l’attività sismica di un territorio. Il mio tracciato, paragonato al terremoto, sembrava quello della Faglia di Sant’Andrea in California. 

Quel giorno fu l’inizio della mia fine. Innamorata della pallavolo, mio padre mi costrinse ad abbandonarla. In un primo momento i miei genitori ebbero paura anche a lasciarmi andare a scuola. Io non capivo. Non capivo perché, dopo 16 anni di perfetta salute, adesso loro si preoccupassero tanto. Ovviamente avevo perso coscienza durante la crisi quindi la mia insofferenza a queste loro ansie era più che giustificata. Cominciai la terapia e le crisi diminuirono. L’anno seguente una Società di pallavolo più importante mi chiamò e mi chiese se volessi andare a giocare da loro. Vi faccio dedurre i pianti, la delusione e tutto il dolore che provai a dover rinunciare a quell’occasione che mi avrebbe fatto superare un certo livello. Tutto negato da mio padre. Mia madre non proferì parola. Passò anche quell’anno però le crisi tornarono ogni mese o ogni due. La terapia cambiò varie volte, ma non riuscì a calmare l’ansia di mio padre. Perché alla fine la preoccupazione era maggiormente sua: era trasparente, la percepivo. 

Fra qualche mese compirò 18 anni e 2 anni della mia convivenza con l’epilessia. Mio padre continua ad avere la stessa ansia. Mi erige muri per ogni proposta che gli faccio. La motivazione? “E se ti viene una crisi?”. Certo, se mi venisse una crisi sarebbe un bel problema, ma se non mi venisse? Mio padre ora mi costringe a dire le bugie per non farlo preoccupare, mi “costringe” a vivere la mia vita come se dovessi morire il giorno dopo. Lui mi ripete ogni volta che non devo spremere per forza fino all’ultima goccia ogni mio giorno, ma quando gli rispondo che è lui che mi fa sentire in questo modo lui nega, inventa scuse. Non mi lascia più avere speranza. O meglio, questo è quello che crede perché io so di essere forte, so di avere speranze. So di avere degli obiettivi, delle ambizioni. Avevo un sogno e lui me l’ha distrutto. Ma a volte l’unica cosa che ci rimane è semplicemente alzarci e ricominciare. Più forti di prima. Io non smetto di lottare. Ho degli obiettivi e farò di tutto per raggiungerli. Non mi fermerà mio padre. Non mi fermerà la mia malattia.

Lorenza



Nessun commento:

Posta un commento